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Carla

Non mi ricordo quanti anni sono passati da quando ho messo piede per la prima volta nella sede dell’IBVA. In tutti questi anni molte cose sono cambiate, i volti dei ragazzi e dei tutor si sono avvicendati, ma una cosa, per me, è rimasta costante: la parola “commozione”.

La commozione di vedere un ragazzo, che consideravo una missione impossibile, alla sera dopo la fine dell’orario, da solo nella stanza vuota, ripetere la poesia che non era riuscito ad imparare.

Commozione nel ritrovare lo stesso ragazzo, passato alla scuola professionale, entusiasta perché aveva imparato a fare la pizza e, finalmente, aver preso un bel voto anche in matematica.

Mi sono commossa quando uno studente, che non sapeva una parola di italiano, mi ha sgridato perché non riuscivo ad imparare i numeri in cinese.

Commossa quando una ragazzina siriana, mi ha raccontato la sua infanzia nel suo martoriato paese in guerra e le peripezie per raggiungere l’Italia.

Commossa quando un ragazzo cinese intelligentissimo ha controllato sul suo traduttore che le mie spiegazioni di parole a lui sconosciute fossero corrette, dopodiché si è prestato ad aiutare altri ragazzi nella soluzione di esercizi di matematica.

Commossa quando incontro dopo alcuni anni uno studente che, nonostante le grandi difficoltà, è riuscito a trovare il mestiere che gli piace e me lo dice. Lui, sempre corrucciato, lo fa con un grande sorriso di soddisfazione, che a me significa “non ci credevi, ma ce l’ho fatta. Faccio il meccanico, mi piace e sono contento”.

Poco? Tanto? Non so, ma ha me dà la risposta: ecco perché continuo ad andare all’Ibva.