Attualità, News

3 ottobre 2013: la tragedia di Lampedusa nel racconto di Alessandro Leogrande

 Il 3 ottobre 2013 avvenne uno dei più terribili naufragi mai registrati nel Mediterraneo: 368 persone migranti, fra cui 83 donne e 9 minori, annegarono a poche centinaia di metri a largo di Lampedusa. Il giornalista e scrittore Alessandro Leogrande, grazie a numerose interviste ai sopravvissuti, ricostruì nitidamente non solo ciò che avvenne durante il naufragio, ma anche quello che i naufraghi dovettero affrontare nei mesi che lo precedettero, perché  “il viaggio culminato nel terribile naufragio del 3 ottobre 2013 ha avuto inizio molto prima. Non giorni, ma mesi prima. Eppure ogni istante che lo precede sembra essere stato risucchiato nelle viscere del mare, assieme al relitto in secca sul fondale”.  

Il vivido racconto che Leogrande trasse dalle voci dei superstiti, si trasformò poi in un capitolo del suo “La frontiera”, testo edito da Feltrinelli nel 2015, diventato un classico della letteratura dedicata alle migrazioni. Così a 10 anni esatti dalla tragedia, abbiamo scelto di riproporre qui quel capitolo, perché resta una delle cose migliori scritte sull’argomento; perché i fatti descritti conservano tutt’oggi una loro drammatica attualità, rivelando la bugia di fondo su cui si basa la retorica dell’emergenza; perché quelle righe dimostrano come nonostante i 10 anni passati, gli oltre 28 mila migranti morti o dispersi, l’ordine geopolitico mutato, nonostante i fiumi di parole dette, niente sia davvero cambiato nella gestione delle dinamiche migratorie.

Buona lettura.  

3 ottobre 2013

«Attraversando la Libia di notte, non hanno visto niente. Chilometri e chilometri di nulla. Lo sfascio del dopoguerra, le distruzioni ai bordi delle strade, le divisioni del confitto sono stati allontanati dal loro sguardo e dai loro ricordi. Si sono ritrovati sulla costa, raccolti in massa per essere imbarcati alla prima occasione buona, come dopo aver attraversato una bolla. Un tunnel buio, privo di spettri. Quando, molto tempo dopo la grande strage, qualcuno chiede loro com’era la Libia, quali fossero gli effetti del confitto, nessuno tra i sopravvissuti sa rispondere con esattezza. Quando proprio devono dir qualcosa, si limitano ad accennare: l’abbiamo vista solo di notte. Il viaggio culminato nel terribile naufragio del 3 ottobre 2013 ha avuto inizio molto prima. Non giorni, ma mesi prima. Eppure ogni istante che lo precede sembra essere stato risucchiato nelle viscere del mare, assieme al relitto in secca sul fondale.

Appena approdati in Libia, dopo un lungo peregrinare iniziato nel cuore del Corno d’Africa, i futuri naufraghi sono stati lasciati in pieno deserto dai sudanesi che li avevano portali fin li. Solo dopo alcune ore sono arrivati i trafficanti libici che li avrebbero condotti lungo la costa. Da li in poi il viaggio è stato duro. I libici vanno molto veloci, corrono come pazzi su strade accidentate, e non è raro che il carico umano che riempie fino all’inverosimile i pick-up si cappotti. Spesso avvengono incidenti gravissimi. Quando un carico si ribalta, quelli che si salvano, quelli che rimangono illesi, sono trasferiti su un altro pick-up già pieno. Cosi si continua la marcia, magari in cinquanta su un unico mezzo. E gli altri? Alcuni raccontano di persone a cui si è rotta una gamba che sono state lasciate lungo la strada. Chi rimane ferito, o comunque è troppo debole per proseguire, viene abbandonato nel deserto a morire.

L’acqua manca. I trafficanti mescolano la benzina alla poca acqua rimasta per farli bere di meno, per non farli accalcare come bestie intorno alle misere taniche. Di notte in notte sono stati spostati in luoghi sempre diversi, trasferiti di continuo da un cortile all’altro. Non sarebbero in grado di indicare le targhe dei pick-up, né saprebbero riconoscere i luoghi in cui sono stati portati. È tutto molto confuso. Viaggiavano sotto le stelle, e di giorno rimanevano recintati. Nel tragitto il gruppo si infoltisce, si riempie di uomini, donne e bambini, fino a quando non vengono portati tutti insieme vicino a Tripoli, a un’ora dalla città. Il gruppo conta ormai cinquecento persone. Vengono rinchiusi in una specie di villa. Alcuni parlano di un grande giardino, altri di un prato: un pezzo di terreno coperto dal verde, circondato e riparato dallo sguardo dei passanti. Rimangono li per oltre un mese. Non possono uscire, non hanno alcuno scambio con il mondo esterno. Così i rapporti tra loro, fra tutti loro, si rinsaldano. Per lo più vengono dalle stesse zone dell’Eritrea occidentale, molti si conoscono di vista o di nome, quel tanto che basta per riuscire a decifrare parentele e genealogie.

Nessuno dice loro quando partiranno per Lampedusa, il viaggio cui tutti ambiscono sembra un’entità astratta di cui non si deve parlare. I nuovi guardiani del giardino non aprono bocca. Girano armati e, al minimo segno di protesta, quando viene formulata una domanda appena più pressante, li bastonano con solerzia, con la solerzia delle guardie che sono lì a eseguire degli ordini. I giorni si susseguono uguali l’uno all’altro, tra soprusi, violenze, apatia, incertezza, impossibilità di uscire al di fuori del recinto, nella paura costante di essere visti da quel che rimane della polizia libica. Poi all’improvviso una sera, come in genere accade prima dei viaggi, viene annunciato che dovranno partire da li a poco. In gruppi vengono portati sulla spiaggia e attendono l’arrivo della nave. È buio, si avverte l’umidità del mare. Si guardano in faccia tra loro, alcuni parlottano. Non sanno dove andranno, se a Lampedusa o da qualche parte in Sicilia, in fondo non sanno nemmeno che differenza c’è tra Lampedusa e la Sicilia. Ognuno riferisce ciò che ha sentito dire, alzando una nuvola di parole, ma quando vedono l’imbarcazione al largo, Iì in fondo, la prima cosa che si chiedono è come farà a contenerli tutti.

Arrivano i primi gommoni e iniziano a trasportarli in gruppi di venti alla volta. Fanno avanti e indietro dalla nave madre ancorata al largo, mentre vengono caricate fino a cinquecento persone. Una quarantina di loro viene fatta scendere perché il carico è troppo pesante: tornate al giardino, per voi non c’è posto… Ma gli altri rimangono a bordo. Vengono ammassati nella stiva, sul ponte, in ogni minimo pertugio rimasto libero, in un pericolosissimo gioco di equilibri: per tutto il tempo del viaggio viene ribadito di fare attenzione al balance, al bilanciamento dei pesi. Chi sta a poppa non deve andare a prua, e chi sta a prua non deve andare a poppa, sennò la barca affonda. A comporre la nave e il suo carico come fosse un mosaico ci pensa un tale di nome Ermias, un trafficante che vive a Tripoli e controlla personalmente l’ultimo tratto del viaggio. È lui che li fa imbarcare con ordini perentori e li sistema con perizia sulla nave, tanto che tutti, nei racconti che seguiranno, ricordano il volto e rammentano il nome. È etiope.

Partono, alle undici e mezzo di sera. Alle quattro del mattino sono già al largo dell’isola di Lampedusa. A bordo si sparge la voce che verranno a prenderli due o tre imbarcazioni. Il capitano della nave è un tunisino, ha la pelle chiara ed è accompagnato da un ragazzino. Se l’uomo ha modi da duro, tipici di chi sta portando a termine una pratica ordinaria, trasportare il proprio carico da una parte all’altra del Medi terraneo, il ragazzino sembra più gentile. Lampedusa è sempre più vicina, ormai sono a ottocento metri dalla costa. A ottocento metri dalla piccola Isola dei Conigli, separata da Lampedusa da un breve tratto di mare. Un fremito corre lungo tutto il peschereccio. L’Italia è li, l’Europa è lì, a portata di mano. Presto saranno accolti, pensano, e allora all’unisono decidono di cambiare indumenti. Mettono da parte i cenci che fino ad allora hanno indossato e si vestono bene, con gli abiti migliori che hanno premurosamente conservato in tutti i mesi del viaggio, per festeggiare l’arrivo in Italia. Buttano in mare i cellulari perché così il capitano ha ordinato loro di fare, e aspettano fieri l’approdo in Europa.

Il peschereccio si ferma, i ragazzi a bordo mormorano, si mordono le labbra, si danno pacche sulle spalle, mentre in lontananza vedono una luce che si avvicina lentamente. Sembra una nave grande. Vengono a salvarci. Non è un semplice peschereccio come quello su cui sono stipati, ma un’imbarcazione più grande, imponente, illuminata da cima a fondo. Non riescono a intravedere quale bandiera batta. Non riescono a scorgere se ci sia un nome sulla murata o se siano disegnati dei simboli. Loro sono al buio e la nave è avvolta in un fascio di luce irreale. In quel momento pensano solo che siano venuti a prenderli. Alzano le braccia, urlano, cantano, imprecano, chiedono aiuto, ma il gigante di luce si rivela del tutto indifferente. La nave non si accosta, gli passa accanto, secondo alcuni addirittura li circumnaviga, e poi si allontana.

La stessa cosa si ripete con un’altra imbarcazione di notevoli dimensioni. Anche questa è molto grande, non è un normale peschereccio. E anche di questa non riescono a capire la forma, che tipo di natante sia, e quale bandiera batta. La vedono solo avvicinarsi e poi di nuovo allontanarsi. Le loro urla rimangono inascoltate ancora una volta. Anche questa non è venuta a traghettarli sullo scoglio di Lampedusa.

Sul piccolo peschereccio monta l’agitazione, si accendono le discussioni, si inseguono le ipotesi più svariate. Ed è in quel momento che nella stiva si accorgono che stanno imbarcando acqua. Si è inceppato il sistema che permette di sgottare. I piedi si ricoprono di acqua fredda e le urla si fanno più forti. Per sedare il panico, e per lanciare un segnale nel buio tornato pesto, il capitano dalla faccia da duro dà fuoco a una coperta e la agita in aria con le mani. Ma ottiene l’effetto contrario, quello che scatena la tragedia.

Non è che si sviluppi un vero e proprio incendio, diranno poi i superstiti. Se c’è un principio di combustione, viene subito chetato. Il problema è che le persone ammassate a poppa, vedendo la vampata, si spostano in massa verso la prua. Il balance, il maledetto balance a cui sono stati attenti per tutta la durata del viaggio, quasi fosse un’entità metafisica da venerare, si altera di colpo e il peschereccio si capovolge immediatamente. Tutto avviene con grande rapidità, non hanno il tempo di accorgersi di quello che sta accadendo: in mezzo minuto tantissime persone sono in acqua e altrettante stanno morendo nella stiva.

A bordo ci sono parecchi quintali di gasolio. Nessuno sa perché siano così tanti. Ma forse la spiegazione più semplice è che gli organizzatori del viaggio hanno voluto essere sicuri di non fermarsi in mezzo al mare, come spesso capita molte carrette. Quello che portano è un “carico” importante, del valore di seicentomila euro, considerando il prezzo pass da ogni migrante, e il carico deve arrivare a destinazione. Costi quel che costi, deve arrivare… Il carburante non va a fuoco, ma si rovescia in mare. Crea un lago d’olio, mescolandosi all’acqua. Impregna ogni cosa. stordisce chi annaspa con il suo odore acre.

Scoppia il finimondo. Molti vengono risucchiati dal gorgo creato dal rovesciamento della piccola imbarcazione. Molti affogano nell’acqua resa vischiosa dall’olio, gli si annebbia la vista, gli si mozza il respiro. Altri sono spini sott’acqua dai propri vicini che cercano di salvarsi. Divampa una lotta durissima per la sopravvivenza, una lotta resa ancora più infernale dal gasolio. Chi non è ancora affogato si graffia e si ferisce cercando di non andare a fondo. Alcuni riescono a mantenersi a galla raggiungendo le assi di legno che si sono staccate, ma anche in quel caso ogni pezzo di barcone diventa una zattera insufficiente a tenere tutti quelli che provano ad aggrapparsi. I più stanchi si lasciano risucchiare dal Mediterraneo.

Alcuni provano ad allontanarsi al largo, provano a raggiungere le luci che vedono in lontananza. Molti non sanno nuotare, e muoiono per questo, altri muoiono perché stremati dalla fame: da mesi mangiano solo un tozzo di pane al mattino e uno alla sera, un po’ di minestra e dell’acqua. Le donne e i bambini che riempiono la stiva muoiono per primi. Li ritroveranno abbracciati, con le mani delle donne messe a coppa sulla bocca dei bambini per cercare di farli respirare qualche secondo in più, per impedire all’acqua di entrare nei polmoni.

Tutti ricordano un grande freddo. Una ragazza di vent’anni, che ha imparato a nuotare nei laghetti che si creano in Eritrea durante la stagione delle piogge, dice di essere sopravvissuta per miracolo. Un uomo grande e grosso, che l’aveva afferrata per il collo per tenersi a galla, l’ha mollata per lanciarsi su un pezzo di legno. Lui è andato giù con tutto il pezzo di legno, lei è riuscita ad allontanarsi. I primi ragazzi salvati dai pescatori sono completamente ricoperti di gasolio. Bevono acqua salata e gasolio, vomitano e hanno attacchi di diarrea. Il carburante rende tutto viscido. Le mani afferrate dai soccorritori scivolano subito in mare. I corpi guizzano come anguille.

I sopravvissuti, poi, ricorderanno il nome di un pescatore in particolare, Costantino. È lui a tirarne su tanti. Eppure non riesce a salvarli tutti. Sporto a mezzo busto dalla sua barca, vede un groviglio di braccia e mani che tentano di afferrarlo. Prova a prenderne qualcuna, ma l’attrito è inesistente. L’acqua mista a olio ha il sopravvento. Nella concita-zione, quelli che riesce a sollevare li afferra dai vestiti o li stringe dalla vita, incastrando le braccia sotto le ascelle. Ma è un’impresa titanica.
Qualcuno, infine, riesce ad arrivare a nuoto fino alla spiaggia. Una ragazzina racconta di aver nuotato con un amico, si facevano coraggio a vicenda. Poi a un certo punto non l’ha più sentito».